Giorgia Meloni a «La Verità»: «Dai pm una grave invasione di campo, è ora di riequilibrare i poteri»

«L’attacco di alcuni magistrati nei confronti di politici considerati nemici ha raggiunto livelli inquietanti»

L’editoriale del presidente di FdI pubblicato dal quotidiano “La Verità” il 26 maggio 2020

Caro Direttore,

mi ha molto colpito il silenzio della quasi totalità della classe politica sul caso Salvini-pm. In pochissimi hanno espresso solidarietà all’ex ministro o parole di condanna verso esponenti della magistratura che dichiaravano la necessità di utilizzare la giustizia che amministrano per colpire ingiustamente un esponente politico non gradito. Ma al di là del calcolo politico, o del timore reverenziale che la politica tende ad avere nei confronti della magistratura, credo che in cuor loro in molti si rendano conto della enorme portata del tema. Lo si potrebbe chiamare «effetto Robespierre». Da decenni l’aggressione di taluni pm nei confronti di personaggi politici ritenuti ostili si realizza depositando intercettazioni telefoniche o ambientali che li riguardino nelle redazioni delle testate giornalistiche, prima ancora che nelle segreterie degli uffici giudiziari: accade anche quando il contenuto della conversazione captata non ha alcun rilievo penale, ma lo ha invece sul piano mediatico.

Un bel giorno – e da un po’ questi giorni si moltiplicano – accade che chi ha ordinato di mandare alla ghigliottina finisce pure lui decollato: fuor di metafora, colloqui intercettati che coinvolgono pm vengono diffusi pur non contenendo evidenti notizie di reato, con palese discredito del magistrato oggi caduto in disgrazia. Nella vicenda Salvini-pm c’è anche questo, e tuttavia quasi nessuno ne ha fatto cenno. Assistiamo, cioè, al costante inquinamento della vita istituzionale – fino a qualche tempo fa del governo e del Parlamento, adesso anche della giurisdizione – con l’uso indebito delle intercettazioni. Che il sistema lasci a desiderare è così evidente che lo ha capito perfino l’attuale governo, atteso che uno dei tanti decreti legge prodotti in questo periodo ha disposto l’ennesima proroga dell’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni: la legge di riforma risale a tre anni fa, il decreto attuativo è stato varato dal governo Gentiloni, poi sono iniziati i rinvii.

Ci sarà una ragione se dopo tanto tempo la riforma non è mai divenuta operativa? Non è forse il caso di rivederla? Noi pensiamo di sì. Fra i suoi aspetti più preoccupanti, vi è la mancata definizione delle modalità tecniche per le intercettazioni eseguite col cosiddetto trojan, nonostante la richiesta del Garante della privacy perché siano dettate regole su limiti, strumenti e modalità con cui si intercetta, su come trasmettere e custodire i dati, sull’integrità e sulla sicurezza di quanto captato.

La criminalità va combattuta, ma con mezzi trasparenti e rispetto dei diritti. È un grave problema di tutela dei diritti fondamentali del singolo, ed è al tempo stesso una questione di sovranità tecnologica nazionale: si utilizzano strumenti stranieri, col rischio di ripercussioni in settori altamente sensibili per la sicurezza italiana. E gli accordi intercettati per recare danno (mediatico e politico) a Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno, e puntava ad arginare la migrazione irregolare? Chiedo: c’è bisogno di un trojan per farla emergere? È da tempo che settori della giurisdizione teorizzano non in modo occulto, ma su riviste e su chat partecipate da centinaia di utenti, il proprio ruolo di indirizzo in settori come l’immigrazione clandestina e la sicurezza pubblica: e spiegano come attraverso decreti e ordinanze sia possibile fermare l’azione di un governo che – per esempio ha deciso di fermare gli sbarchi.

È stato così dieci anni fa, durante i governi Berlusconi dei quali ho fatto parte, quando al Viminale c’era Roberto Maroni, e alcune Procure iscrivevano nel registro degli indagati i comandanti delle imbarcazioni della Guardia di finanza che in mare effettuavano le operazioni di respingimento: dopo averne parlato non al telefono, ma in riunioni di corrente. I procedimenti poi sono stati archiviati, ma l’effetto di interdizione è stato raggiunto. Il nodo della costante sovrapposizione giudiziaria all’attività politica andrà affrontato se e quando ci sarà un esecutivo non prono alle indebite iniziative di taluni pm: e andrà affrontato non in conflitto, ma d’intesa con quella parte della magistratura che non tollera certe invasioni di campo di propri colleghi. Per ragioni di principio, e per una certa cautela che deriva dall’esperienza di vita di Robespierre.

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8 commenti

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    • Ewa il 26 Maggio 2020 alle 17:48
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    Molti giudici inadeguati hanno paura della verità. Responsabilità civile per loro non esiste e la loro coscienza dove è ???

    • Giorgio il 26 Maggio 2020 alle 18:49
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    Sarebbe ora che la magistratura faccia il loro lavoro onesto !!!! E che non venga coinvolta nella politica ,e che i politici facciano il loro lavoro onestamente e evitino i loro soliti giochini di palazzo!!!!

    • Federico Puglia il 26 Maggio 2020 alle 19:25
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    La cosa ancora più grave sta “nel silenzio dei conviventi”, ovverosia quegli stessi organi di stampa che negli ultimi 25-30 anni hanno fatto le loro fortune editoriali, grazie a false accuse mai smentite a sufficienza quando le Sentenze dei Tribunali smentiva le ipotesi dei PM e, che oggi ancora ignorano o trovano scuse ignobili, a fronte di un caso inquietante, che finalmente presenta la convivenza tra parte della magistratura, politica e giornalisti, Neanche nella tanto criticata e ridicolizzata Corea del Nord, si raggiunge questo livello di dittatura!

    • Francesco Carlo BIANCA il 26 Maggio 2020 alle 19:49
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    Avv. Prof. Francesco Carlo Bianca
    GIUSTIZIA e POLITICA

    Nella fase costituente del 1948, la magistratura, quale garante imparziale del rispetto delle leggi, è stata chiamata a ricoprire un ruolo centrale nell’assetto dello Stato democratico.
    Funzionale a tale attività era la necessità di porre la Magistratura in una posizione di assoluta autonomia e indipendenza di fronte al potere esecutivo, e i singoli giudici in una posizione di soggezione soltanto alla legge: una giusta reazione all’articolo 98 dello Statuto albertino: “La Giustizia emana dal re ed è amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce”; da cui era scaturito l’ordinamento giudiziario del 1865, che solo sul piano formale riconosceva la indipendenza della magistratura mentre, in concreto, ne assicurava il pieno controllo governativo mediante una particolare disciplina dello stato giuridico dei magistrati: dall’assegnazione delle sedi alle promozioni, ai trasferimenti, alle nomine dei capi degli uffici ed ai provvedimenti disciplinari; attività svolte da una Commissione composta da magistrati nominati e controllati dal Ministro della Giustizia, munito del potere di trasferirli in base ad una non meglio definita “utilità di servizio” e di ammonimento e richiamo, in virtù di una non meglio definita “attività di alta sorveglianza”.
    Nell’intento di assicurare ai giudici quell’assoluta autonomia e indipendenza che non avevano mai avuto, i Costituenti accolsero la concezione dello Stato illuminista, sostenuta da Piero Calamandrei, anche se una così esasperata interpretazione liberale si poneva in patente contrasto col principio democratico, in forza del quale l’esercizio di qualsiasi pubblica attività andava ricondotto al giudizio della sovranità popolare; rilievo non secondario su cui era stata richiamata l’attenzione dei costituendi, data la singolare posizione in cui si sarebbero trovati i magistrati, una volta sganciati dal controllo parlamentare.
    Con l’accettazione dell’idea liberale, l’articolo 101 della vigente Costituzione ha affermato la completa indipendenza dei giudici dal potere politico: ”La giustizia è amministrata in nome del Popolo”, non più, quindi, in nome del re, “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, non più, quindi, al potere esecutivo; l’articolo 104 afferma che tutti i provvedimenti sullo stato giuridico dei magistrati vanno affidati al Consiglio Superiore della Magistratura; mentre l’articolo 107 proclama l’inamovibilità dall’ufficio e afferma che questi si distinguono soltanto per la diversità delle funzioni, esclusa ogni gerarchia che possa derivare dall’anzianità o dall’ufficio ricoperto.
    Tornando al periodo monarchico, non si può dire che il Pubblico Ministero abbia avuto un trattamento più favorevole rispetto a quello della magistratura giudicante; anzi, la sua posizione era sottoposta a un controllo addirittura più stringente, come risulta dalla definizione dell’articolo 129 dell’Ordinamento giudiziario del 1865: “rappresentante del potere politico presso l’autorità giudiziaria, direttamente dipendente dal Ministro della Giustizia, in grado di controllare l’esercizio dell’azione penale a mezzo di circolari inviate ai Procuratori Generali delle Corti di Appello e da costoro trasmesse ai Procuratori del re presso i Tribunali, così da poter realizzare una vera e propria selezione di quei reati che il potere politico intendeva perseguire con maggiore determinazione, quali quelli commessi in occasione di scioperi, di conflitti sociali o manifestazioni di dissenso politico”. “Ove la risposta giudiziaria a episodi di conflittualità, politica o sociale, di particolare rilevanza richiedesse una strategia concordata tra il Governo e la Magistratura, il Ministro della Giustizia, sollecitato dal Presidente del Consiglio o dal Ministro dell’Interno, poteva anche inviare istruzioni riservate sui modi di conduzione di singoli procedimenti, invitando, per esempio, il pubblico ministero ad emettere ordini di cattura, a contestare reati di particolare gravità, ovvero ad astenersi dall’esercitare l’azione penale. Grazie a questi poteri di supremazia gerarchica sul pubblico ministero, il Governo era quindi in grado di esercitare un controllo preventivo sui casi che sarebbero stati portati all’esame dei giudici, predeterminando, a seconda della convenienza politica, l’area di intervento della magistratura giudicante”. (vds. Lo Stato della Costituzione. Guido Neppi Modona e Anna M. Poggi – Ed. Il Saggiatore, 1998.
    Con l’avvento della democrazia liberale, il vigente Ordinamento giudiziario attribuisce al Pubblico Ministero le stesse garanzie di cui gode la magistratura giudicante e gli fa obbligo di esercitare l’azione penale, che deve iniziare, condurre e concludere in completa autonomia e indipendenza, senza alcuna subordinazione al potere politico, nei confronti di chiunque ritenga autore di un reato.
    In definitiva, anche se tale Ufficio dovesse esercitare un’attività ampiamente discrezionale, non equilibrata con il principio di responsabilità. Problema, questo, che ha interessato e continua a interessare tutti i regimi democratici.
    “Se si considerano le modifiche introdotte nell’assetto istituzionale del pubblico ministero in vari Paesi e il perdurante dibattito sul suo ruolo, può’ certamente dirsi che i tentativi sinora fatti di bilanciare i due valori dell’indipendenza e della responsabilità assumono il carattere di un equilibrio instabile piuttosto che quelle di soluzioni definitive e pienamente soddisfacenti. In particolare, in vari Paesi democratici si può notare la ricorrente tendenza a modificare tale equilibrio con misure volte a rendere il pubblico ministero meno dipendente dalle maggioranze governative. Una tendenza, tuttavia, che non viene mai spinta fino al punto da ignorare il valore democratico della responsabilità. All’interno di questo quadro l’Italia si profila come un caso deviante. Priorità assoluta è data al valore dell’indipendenza. Nessun rilievo è dato al valore democratico della responsabilità per le scelte che i pubblici ministeri sono comunque chiamati a prendere nel cruciale settore delle politiche penali. Se si aggiunge che il pubblico ministero ha la direzione dell’intera fase delle indagini e il pieno controllo della polizia giudiziaria, e che l’iniziativa dell’azione penale è passata dal Capo dell’ufficio alla quasi completa discrezionalità del singolo pubblico ministero, si può avere un’idea dell’enorme potere che egli ha in mano. In altre parole, è considerato pienamente legittimo che ciascuno di essi inizi e conduca, in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo, su qualsiasi cittadino, utilizzando le forze di polizia per accertare reati che essi stessi, più o meno fondatamente, ritengono essere stati commessi. E non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili per queste decisioni, nemmeno qualora le accuse – com’è successo – si rivelino, negli anni successivi, del tutto infondate nel corso del dibattimento, cioè quando le molteplici sanzioni sociali e\o politiche e\o economiche e\o familiari che di fatto spesso si collegano alle iniziative penali, abbiano già prodotto appieno i loro dirompenti effetti sui cittadini indagati o imputati e sulle loro famiglie”. (vds. G. DI Federico, Una Costituzione per le riforme- Le riforme costituzionali e la giustizia- pag.202 e segg. Ed. Liber Liberal, Firenze. Purtroppo, tale amplissima discrezionalità, che poggia proprio sull’irresponsabilità, ha sollecitato e scatenato l’attività di alcuni pubblici ministeri, indirizzata ad attirare (in buona o in mala fede) l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa, così da soddisfare le più disparate ambizioni personali, potendo questi scegliere, a discrezione, le persone da perseguire piuttosto che i casi su cui indagare.
    Da quanto detto è facile rilevare come, ancora oggi: “ il problema della regolamentazione del “potere !) giudiziario è uno dei più delicati col quale deve confrontarsi il legislatore costituente in uno stato democratico, poiché nel delineare una funzione la cui rilevanza politica non può essere disconosciuta, è necessario rendere compatibile la sua “democratizzazione” con la sua indipendenza e separazione: esigenze che sono, in generale, differenti e, in alcune occasioni, contraddittorie, e comunque in tensione permanente” –(vds. La posizione del potere giudiziario nella Costituzione spagnola del 1978, Louis Mosquera pagg.677 e segg. in La Costituzione spagnola del 1978 –Giuffrè – ed.1982)
    Per questi motivi, anche nel settore della Giustizia sarebbe opportuno attuare profonde riforme, per impedire il formarsi di caste o correnti ideologiche, immettendo, nei vari gradi di giurisdizione, cittadini dotati di professionalità tecnica ma formati e affinati in un contesto sociale “laico”. E’ la soluzione adottata in quasi tutti i Paesi europei, in cui un’aliquota dei posti disponibili negli organici della magistratura è riservata agli avvocati; soluzione del resto adottata anche dal nostro Ordinamento: infatti, anche la Giustizia italiana, sia pure in modo marginale o residuale, si avvale di avvocati, denominati giudici di pace, giudici onorari aggiunti di Tribunale (GOA), mentre nelle Commissioni Tributarie la collaborazione con i giudici togati si estende fino ai commercialisti e ai tecnici professionali, competenti nei vari settori di natura fiscale.
    Inoltre, andrebbe realizzato il principio dell’incompatibilità delle funzioni, giudicante e requirente, con gli incarichi professionali, con gli arbitrati e vietato il distacco presso altre amministrazioni; oltre all’ineleggibilità alle cariche elettive dei magistrati e dei pubblici ministeri prima che siano trascorsi almeno due anni dalla data di effettiva cessazione dal rapporto di lavoro.

    Francesco Carlo BIANCA

    • ricky65 il 27 Maggio 2020 alle 11:08
    • Rispondi

    L’ITALIA E’ QUELLO STRANO PAESE DOVE POLITICI VENGONO PROCESSATI PER ABUSO DI POTERE DA CHI ABUSA DEL POTERE PER ELIMINARE I POLITICI MA NON VIENE PROCESSATO

  1. La giurisdizione
    non è un “Potere” ma una “Funzione”

    Se si analizza senza pregiudizi ideologici la natura dell’attività giurisdizionale risalta evidente la sua diversità rispetto a quella legislativa ed esecutiva; infatti, mentre queste sono esercitate da cittadini “eletti” dal Corpo elettorale, cioè dalla Comunità Nazionale nella propria veste di Popolo Sovrano, quella è esercitata da cittadini “reclutati” mediante un pubblico concorso, costituto da un procedimento amministrativo in cui la volontà popolare è assente.

    Si aggiunga, inoltre, che mentre gli “eletti” rispondono dei loro atti direttamente alla Comunità Sovrana, i magistrati, invece, nell’esercizio delle loro funzioni sono del tutto irresponsabili dal punto di vista politico, nel senso che non rispondono al Popolo, anche se sono soggetti al giudizio del Consiglio Superiore della Magistratura, comunque formato da una schiacciante maggioranza di membri togati, tanto da rivestire tutte le caratteristiche di una “giu-stizia domestica”.

    Se, quindi, si vuole considerare la giurisdizione un Potere bisogna concludere che ci troviamo di fronte ad un vulnus rispetto ai principi della democrazia popolare, in base ai quali ogni “potere” non solo deve emanare dalla Comunità Sovrana ma deve essere sottoposto pure al suo giudizio.

    I motivi, qui appena accennati, sono trattati in una Ipotesi di Nuova Costituzione 2005-2015, settima edizione, scaricabile a titolo del tutto gratuito dal sito http://www.nuovacostituzione.it” o cliccando su “francescocarlobian-ca”.

    In tale progetto costituzionale è messa in evidenza l’improrogabile necessità di una completa rivisitazione della normativa concernente la giurisdizione che, sia pure riaffermando l’indipendenza dei suoi operatori e la loro sottoposizione soltanto alla legge, nel contempo predisponga chiare norme in ordine alla loro responsabilità, personale e diretta, alla netta separazione della funzione giudicante da quella requirente, alla unificazione della giurisdizione, oggi divisa in: ordinaria, amministrativa, tributaria e contabile, onde affermare il principio, da tempo misconosciuto, dell’unum ius una giurisdictio, oltre alla immissione di avvocati e dottori commercialisti in tutti i gradi di giudizio, così da evitare, per quanto possibile, la creazione di una Casta autoreferenziale.

    Francesco Carlo BIANCA

    • emilio il 28 Maggio 2020 alle 11:18
    • Rispondi

    Interessante l’erudita esposizione del Prof. Carlo Bianca, Non si potrebbe inserire da domani mattina una sorta di V° emendamento che permetta al cittadino di rifiutare direttamente un rinvio a giudizio senza l’obbligo di nessun avvocato difensore ??? Magari obbligare un’indagine conoscitiva prima di una sentenza che magari è mancante di dati oggettivi. Questo eliminerebbe accordi
    tanto discutibili alle spalle del cittadino. Per chiedere giustizia devi essere completamente interdetto di intendere e di volere. Non credo che sia l’unico che si è sentito dire …”L’Avvocato sono io” Dopo, quando la causa l’ha persa, ti perseguita fino al pignoramento dei tuoi beni primari. Gli stessi beni che sono vietati al fisco. Grazie professore per una risposta che risolva questo grosso problema !!!!!!!!!!!!!!!!!Cordiali saluti Prof.Bianca…………….Emilio

    • Francesco Carlo BIANCA il 31 Maggio 2020 alle 11:30
    • Rispondi

    Stiamo scontando decenni di una “rappresentatività elettiva” esercitata in regime di monopolio dei Partiti, certamente non idonea, da sola, a soddisfare e realizzare una Giustizia Sociale che possa soddisfare le aspettative della Comunità; per eliminare tale carenza di rappresentatività è necessario chiamare all’esercizio delle funzioni pubbliche, legislative e amministrative, anche i rappresentanti di tutte le componenti della Società Civile, estranei alla militanza nei Partiti, scelti dalle rispettive Organizzazioni di Categoria sulla base dei loro meriti professionali e qualificati sul piano morale; una rappresentanza “selettiva-qualificativa” certamente più idonea a conferire una necessaria credibilità ai procedimenti di formazione della volontà popolare
    Francesco Carlo BIANCA

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