Il testo integrale del mio discorso di apertura del congresso di Fratelli d'Italia – Alleanza Nazionale

Dunque ci siamo. Più di un anno fa abbiamo deciso che saremmo stati padroni del nostro destino, che avremmo corso il rischio di sparire dalla scena parlamentare pur di rivendicare un’idea di libertà, di riscattare un’idea della politica come avventura civile da fare insieme, per marcare il nostro passaggio, per cambiare il corso degli eventi e difendere le idee nelle quali crediamo.

La nostra è stata una scelta considerata temeraria, alcuni l’hanno definita folle. Certamente era ed è una scelta incomprensibile per quelli che campano solo di tatticismi e che in politica hanno ha come unico obiettivo quello di mettere le proprie terga al riparo dalle intemperie e di salvare la loro poltrona. Non è cosi per noi. Abbiamo rischiato tutto dando vita a un nuovo partito a poche settimane dal voto, sapendo che non avevamo alle nostre spalle poteri forti alle spalle o soldi da investire in campagna elettorale. Ma lo abbiamo fatto, perché ci convince quel detto popolare secondo il quale “è meglio essere poveri ma liberi, piuttosto che schiavi con catena d’oro”. Volevamo essere liberi e non schiavi.

Abbiamo rischiato e abbiamo vinto. Nonostante il tentativo dei media di oscurarci, Fratelli d’Italia ha convinto in 40 giorni oltre 700 mila persone alle elezioni politiche, un consenso che da allora è sempre cresciuto. E ogni volta smentiamo i tristi sondaggi che ci riguardano. E chissà se con questi sondaggi sempre troppo bassi c’entra qualcosa anche il fatto che noi non abbiamo particolari risorse per commissionare sondaggi.

Abbiamo proceduto a passi spediti, da allora. Abbiamo allargato quel percorso attraverso il lavoro di Officina per l’Italia, una piattaforma di confronto per anime diverse che cercavano la sintesi sui contenuti. E voglio ringraziare sinceramente quelli fin dall’inizio ci hanno creduto, e che da allora sono parte integrante di questa nuova avventura. Abbiamo lavorato per spiegare che quello che avevamo fatto era soprattutto per non dover assistere all’evaporazione di un mondo che non avrebbe meritato la cancellazione.

Ridare una casa, una dignità, una forza nel panorama politico italiano alla grande tradizione della destra italiana, questo era ed è il nostro obiettivo. Così abbiamo chiesto e ottenuto di poter utilizzare il simbolo di Alleanza nazionale insieme a quello di Fratelli d’Italia, e oggi diamo vita a un movimento nuovo, aperto a tutte le persone che in buona fede abbiano vogliano ricostruire, senza esclusioni e senza rendite, che metta insieme tradizione e innovazione, che non sia un ritorno ad Alleanza nazionale, ma una ripartenza da An, cioè dalla spirito di quella della destra di aprirsi e diventare un partito polo, con un soggetto politico di prendere quei valori e attualizzarli nel nostro tempo.

Perché la storia della destra italiana preesiste alla stessa Alleanza Nazionale, esula dai programmi contingenti e attraversa le generazioni. E’ un’idea politica che non è nata a Fiuggi, né nell’Italia repubblicana. Certamente ha attraversato questi decenni, ma affonda ha le sue radici molto più in profondità: nella Grande Guerra che per prima unificò dialetti sotto un’unica bandiera, nella bella avventura di quei poeti guerrieri che chiamiamo Risorgimento. E si potrebbe andare molto più indietro, perché quella visione della vita che in Europa tutti chiamano destra e che qui in Italia chissà perché si preferisce chiamare centrodestra, ha dipinto le grandi tele del rinascimento, ha ispirato le summe teologiche e i codici cavallereschi del medioevo, ha ereditato lo spirito illuminato del diritto romano. E molto altro.

Vogliamo scrivere un altro pezzetto di questa storia. E forse sarò troppo romantica, ma penso anche che in queste settimane qualcosa abbiamo dimostrato su quanto crediamo in queste settimane. Ad esempio, celebrando in tempi record le primarie e il nostro congresso nazionale. E consentitemi di ringraziare sinceramente i dirigenti, i militanti e i volontari che si sono messi a lavorare a testa bassa per organizzare un lavoro cosi complesso a tempo di record. Non ci si pensa quasi mai, ma dietro a elezioni primarie come quelle che abbiamo celebrato, dietro un congresso come questo, c’è il lavoro sconosciuto di decine, centinaia, migliaia di persone che sacrificano qualcosa per offrire il loro contributo.

Abbiamo mantenuto la parola data coinvolgendo gli italiani nelle scelte, nella definizione della classe dirigente, delle priorità della linea politica, e perfino del nuovo simbolo. Abbiamo rivendicato, così, che essere di destra significa credere nel valore della partecipazione. Sapere che solo mettendo gli italiani nella condizione di contare può migliorare la qualità della nostra democrazia, perché gli italiani sanno scegliere i propri rappresentanti molto meglio delle segreterie di partito. E noi dobbiamo convincere gli italiani a esercitare quel potere straordinario di decidere, di cambiare le cose, che conferisce loro la democrazia.

Non a caso il titolo di questo congresso è “In nome del Popolo Sovrano”. Lo abbiamo chiamato cosi perché crediamo fermamente in quel principio sancito nel primo articolo della Costituzione secondo il quale “la Sovranità appartiene al Popolo”, e lo difenderemo sempre e a ogni costo, ma vogliamo anche chiedere agli italiani di esercitare quel diritto alla sovranità sempre e a ogni costo.

Noi non veniamo privati della nostra sovranità perché qualcuno decide sulla nostra testa, ma qualcuno decide sulla nostra testa perché noi rinunciamo alla nostra sovranità. I 250 mila italiani che si sono messi in fila ai nostri gazebo per essere protagonisti delle scelte dimostrano che abbiamo ragione, che c’è voglia di dire la propria, e che questo sentimento è forte anche a destra e nel centrodestra, una lezione che proprio non hanno voluto capire dalle parti di quello che era il PdL.

I risultati li vediamo. Del resto, non ci sarebbe stato bisogno di dare vita a Fratelli d’Italia se il PDL fosse stato in grado di difendere le idee nelle quali crediamo, se avesse offerto spazi di dibattito serio, di democrazia interna e di meritocrazia. Il nostro non è stato un capriccio, ma una scelta obbligata, l’unica possibilità per non rinunciare alle nostre idee. Perché sono le idee il fine dell’impegno politico, non i partiti. Ricordiamocelo. Noi non facciamo politica per un simbolo, né per una persona. Non ci spendiamo in una militanza appassionata perché un partito vinca le elezioni. Certo abbiamo bisogno di un partito, ma facciamo politica attraverso il partito, non per il partito. Quello per cui ci battiamo è molto più grande. E’ un futuro di dignità per il nostro popolo, un’idea di giustizia sociale, la dignità e l’identità del nostro popolo, la salvaguardia della nostra terra, la ricerca del bene comune. In una parola, è la Nazione.

Così oggi noi diamo vita al partito della Nazione. Un movimento capace finalmente di mettere l’interesse dell’Italia e gli italiani prima di tutto e di tutti. Un movimento coraggioso e determinato che non abbia paura di fare scelte di campo.L’esatto contrario di quello che stanno facendo da anni gli altri partiti italiani. In un momento nel quale sembra che l’identità politica sembra sia passata di moda, in cui tutto sembra uguale al suo opposto, il nuovo centrodestra fa da stampella alla sinistra, il segretario del Pd è il nuovo pupillo di Berlusconi, i partiti in Parlamento sembrano una grande melassa indistinta, bene nel bel mezzo di questo trionfo del nulla, noi diciamo che è giunto il momento di marcare le differenze.

Ce lo ha insegnato Atreju, il protagonista del libro di Michael Ende a cui abbiamo intitolato l’ultimo baluardo di protagonismo giovanile della vita politica italiana. Quando nel duello finale Atreju domanda alla bestia che affronta: “Che cos’è il Nulla che avanza?”. Gmork, il lupo, risponde: “E’ il vuoto che ci circonda, e io ho fatto in modo di aiutarlo, perché è più facile dominare chi non crede in niente. E’ questo il modo più sicuro di conquistare il potere”.

È più facile dominare chi non crede in niente. Marcare le differenze significa innanzitutto dire la verità, avere il coraggio della verità, di non blandire tutti in cambio di facile consenso, avere il coraggio di fare scelte di campo, quale Italia difendere, quale Italia incarnare e quale combattere. Hanno provato a dirci che l’Italia è ridotta in questo stato per colpa degli italiani, di tutti gli italiani, ma non è vero. Giuseppe Prezzolini, in tempi non lontanissimi di questi, diceva “Esistono due Italie, un’Italia fatta di fatti e una di parole, una d’azione, un’altra di dormiveglia e di chiacchiere; una dell’officina, l’altra del salotto, una che crea, l’altra che assorbe”.

Ed è ancora così. Da una parte milioni di italiani che con onestà, passione e desiderio combattono ogni giorno per costruire qualcosa di bello; e che non molleranno mai, costi quel che costi; dall’altra chi trama truffa e arraffa per tornaconto personale calpestando la legge, la comunità, perfino il futuro dei propri figli.

E in mezzo sta la maggior parte dei nostri connazionali, che sarebbero disposti a lottare, anche loro, per il bene comune, se intorno a loro non dilagasse l’assenza di regole e di senso civico, se ci fosse uno Stato credibile sul quale fare affidamento, se quelli che tengono la schiena dritta non venissero guardati come fossero dei pazzi, non fossero derisi, dipinti come il cinico e materialista Sancho Panza dipinge il sognatore Don Chisciotte. Io ho sempre pensato che, tra i due, non fosse Don Chisciotte a dover guarire.

E’ per quella maggioranza silenziosa che ha bisogno di sapere che non è sola,  che noi vogliamo agire. Quella maggioranza di persone fatta di italiani, in bilico ogni giorno tra dignità e rassegnazione. C’è un’Italia che vive e muore a testa alta, che ha consapevolezza di sé e chiede il suo giusto posto nel mondo. E’ l’Italia dei Fabrizio Quattrocchi, di quel ragazzo senza una divisa che muore da patriota davanti a una telecamera, umiliando i suoi aguzzini e facendo dimenticare in un minuto, al cospetto del mondo, il mito dell’Italia “spaghetti e mandolino”.

E c’è l’Italia di Giuliana Sgrena, che fortunatamente ha avuto un destino migliore di quello di Fabrizio Quattrocchi, ma che proprio non riesce a provare pietà per quel ragazzo più coraggioso e arriva addirittura a polemizzare con la possibilità che gli conferiscano una medaglia. E’ l’Italia ideologica che rinnega se stessa a ogni piè sospinto, e l’Italia che ci ha fatto diventare deboli e ininfluenti come siamo oggi. L’Italia che vogliamo vincere.

Mi rendo conto che i nostri possono sembrare toni risorgimentali, che poi con il nome di Fratelli d’Italia e con Ignazio che il risorgimento l’ha fatto veramente, il rischio è elevato. A parte gli scherzi, chiunque sia caduto lungo secoli di battaglie e guerre per affermare la sovranità del popolo italiano, non l’ha fatto perché l’Italia fosse ridotta a Stato vassallo dei suoi vicini europei e dei poteri finanziari più torbidi senza che questo riesca più a generare scandalo e indignazione.

Ormai si sa come è nato il Governo Monti e non dobbiamo aspettare la sentenza dei posteri. Il Governo di centrodestra, l’ultimo governo frutto di un pronunciamento popolare è stato esautorato da torbide vigliacche manovre internazionali, ovviamente col solito aiutino dall’interno, e sostituito con un governo che rispondesse a interessi stranieri e alla grande finanza internazionale. Così è stato con Monti, così è stato con Letta e così è con Renzi, che è l’erede dei suoi predecessori.

Io non mi indigno con loro perché li considero avversari politici. Io mi indigno con loro perché sono avversari dell’Italia. Io, come direbbe Ugo Foscolo parlando di un altro presunto italiano che si rivelò nemico degli Italiani, “piango la patria mia che mi fu tolta, e il modo ancor mi offende”.

Perché sono governi che non hanno fatto gli interessi dell’Italia, non lo diciamo noi, lo dicono i risultati. Non c’è un solo indicatore economico che sia migliorato. L’andamento della produzione industriale è il peggiore d’Europa, il debito pubblico che con all’avvento di Monti era al 120% del PIL è oggi al 133% e continuiamo a battere ogni record di disoccupazione, particolarmente giovanile. In compenso l’Unione Europea ci ha fatto i complimenti, e la Merkel è entusiasta di vedere l’Esecutivo italiano agire nell’interesse della Germania, per di più con il plauso delle nostre istituzioni e dei nostri media, che è ancora più surreale.

Monti si vantava che in Europa gli avevano detto che era il miglior genero possibile per una suocera tedesca, e Letta era tutto contento perché gli avevano detto che aveva fuori le balls of steel, gli attributi d’acciaio. Non capivano i due che in Europa si stavano prendendo gioco di loro. Un po’ come si fa con il pollo messo a giro in un tavolo da poker, al quale tutti i giocatori continuano a fare complimenti – Vai sai fortissimo! – mentre gli sottraggono tutte le fiches.

Cosi gli altri governi europei hanno sottratto all’Italia decine e decine di miliardi, facendoci accettare condizioni surreali.  Basti pensare al Fondo salva Stati, al quale sborseremo nei prossimi cinque anni 125 miliardi ma al quale, per come è stato concepito, non potremo accedere mai, e che in compenso serve a mettere a riparo gli investimenti tedeschi e francesi in Grecia, Spagna e Portogallo. Questa è la verità. Perché il nostro rapporto con l’Europa nasce da una grande malinteso e da una grande contraddizione. Noi non siamo una Nazione che chiede aiuto all’Europa e in ragione di quell’aiuto devono accettare condizioni particolari. Per paradosso siamo il primo contribuente d’Europa in rapporto al PIL. Siamo quelli che danno di più e che hanno indietro di meno. Secondo voi con questi numeri possiamo restare a guardare mentre ci annoverano tra i piigs, che in inglese significa maiali? No, non possiamo. Noi non siamo maiali, siamo galline dalle uova d’oro.

Noi crediamo sia arrivato il momento di dire a chiare lettere che stare nell’euro, a queste condizioni, non conviene all’Italia. Mi avete sempre sentito prudente su questo punto. Ho sempre detto che bisognava uscire dall’euro se non venivano cambiati i patti. Comincio a credere che sia del tutto inutile provare a convincere la sorda Germania a ragionare. Dunque penso che l’Italia debba dire all’Europa: noi vogliamo uscire dall’euro, se pensate che questo sia un problema grave per l’euro, allora convinceteci a restare. Invertiamo l’onere della prova, insomma. Perché all’euro serve l’Italia molto più di quanto all’Italia serva l’euro.

E se per questo ci definiranno populisti, e chissenefrega, meglio populisti che servi. Alle prossime elezioni europee, noi diremo che questa volta l’unico voto utile sarà quello dato a chi andrà in Europa ad alzare la voce, con idee chiare e senza timore reverenziale. Non c’è nulla di utopistico o irrealizzabile in quello che dico. Diceva Adriano Olivetti, in un certo senso il nostro Steve Jobs, ma molto prima, che diceva: “Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”.

Perché l’Unione Europea ci ucciderà se l’Italia continuerà a essere rappresentata da dei maggiordomi zelanti, e in effetti a Monti e Letta la mansione calzava abbastanza bene. E Renzi? Renzi rischia di essere una marionetta caricata a molla. Ha fatto sapere che andrà dalla Merkel con il suo Job Act.

Vi rendete conto che scena pietosa? Ma non si è mai visto un capo di una Nazione sovrana andare in pellegrinaggio in un’altra Nazione per farsi approvare le riforme che intende fare in Patria? Io non ne ho memoria, ma certamente sarà accaduto tra feudatari e vassalli nel medio evo o nei regimi coloniali del secolo scorso.

Mai una Nazione sovrana si è umiliata così. Mai. E non è neanche la notizia peggiore. Sapete qual è il giorno che Renzi ha scelto per questo atto di umiliazione? Il 17 marzo, la data che celebra l’Unità nazionale, il giorno che celebra le ragioni che ci tengono insieme e che celebra la nostra indipendenza e la nostra libertà. Vergognati. Non azzardarti a infangare la nostra Patria andando a fare i tuoi salamelecchi in giro per l’Europa il giorno della nostra Festa nazionale. Se ti serve una data simbolica per questo tuo inchino alla Schettino, quella data è l’8 settembre, non il 17 marzo.

Capiamoci, non siamo contrari all’idea di Europa, noi siamo contrari a questa Europa, che rinnega se stessa, la sua vocazione e il suo destino. Ci pensavo guardando a quegli uomini e quelle donne che in Ucraina muoiono stringendo nelle mani la bandiera dell’Europa, quella con le stelle dorate a ricordare gli antichi popoli che fondarono e difesero la nostra civiltà. Quale terribile tradimento, per quei ragazzi e quelle ragazze, quando quel sogno, per il quale hanno donato la propria vita, si trasformerà in un incubo di interessi finanziari,  quote latte e lunghezza delle carote. Pensate che tradimento.

Difendiamo l’Europa delle cattedrali, dei borghi, dei diritti dei popoli e della sovranità delle Nazioni, e combattiamo l’Europa egoista e tecnocratica a trazione tedesca. E’ il motivo per il quale non rimarremo all’interno del Partito Popolare Europeo a guida Merkel, che ha rinnegato se stessa, la sua vocazione e si è asservito al potente di turno.

E l’atteggiamento dell’Italia deve cambiare in tutti i suoi rapporti internazionali. Perché c’è l’Italia di Sigonella e c’è l’Italia imbelle di Ustica, degli ordini presi dall’ambasciatore kazako, delle condanne incomprensibili per i tifosi in trasferta a Varsavia, delle famiglie derise in Congo, del criminale comunista Cesare Battisti trattenuto dal Brasile. Il tutto, senza che mai l’Italia decida di alzare la voce. E su tutto c’è la vicenda dei nostri fucilieri di marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, perché qui siamo davanti a qualcosa di talmente grave da dimenticare perfino tutto il resto. Nessuno Stato al mondo avrebbe tollerato una tale violazione del diritto internazionale, nessuna Nazione degna di questo nome avrebbe subito in silenzio che due suoi militari fossero trattenuti per due anni da uno stato straniero.

Abbiamo chiesto dall’inizio, mentre ci si chiedeva di non alzare troppo i toni per non urtare l’India, di internazionalizzare il problema e che l’Unione Europea, NATO e ONU prendessero una posizione netta e in assenza di risposte annunciasse il ritiro di tutti i nostri soldati dalle missioni di pace. Perché questi organismi non possono essere nostri amici quando servono vittime italiane da immolare sull’altare dell’equilibrio internazionale, ma perfetti sconosciuti quando c’è da difendere i nostri ragazzi. Se agli occhi della comunità internazionale i nostri militari non sono importanti quando vanno difesi, allora non sono importanti mai.

Forse vale la pena di raccontarla, qualche storia di questa Italia che vorremmo difendere e costruire. Di quegli italiani normali che si trovano a fronteggiare destini più grandi di loro, ma che stringono i denti e vanno avanti a testa alta. Una di queste storie è proprio quella di Salvatore. Come ci è arrivato Salvatore Girone, in India? Salvatore lavorava da diversi anni come aiutante barbiere in una bottega storica a pochi chilometri da Bari. Pensava che dopo quell’esperienza avrebbe aperto un negozio tutto suo. Ma la bottega ha chiuso e Salvatore, che nel frattempo aveva conosciuto Vania, ha dovuto ricominciare tutto da capo. Così è finito in Marina, e da lì al battaglione San Marco di Brindisi. Si è sposato con Vania, e hanno avuto due figli. Un bel giorno gli hanno comandato di imbarcarsi su un mercantile italiano per difenderlo dagli attacchi dei pirati. Dove ha conosciuto un altro commilitone, Massimiliano, pugliese come lui. Il resto della storia lo conosciamo. Prima della triste notorietà, Salvatore ha conosciuto un dramma comune a molti. Un’attività nella quale hai creduto e investito, travolta dalla crisi economica. Del resto, come fa un artigiano a sopravvivere con il carico di tasse che deve sopportare oggi in Italia?

Da un lato un fisco che stritola qualunque iniziativa privata, dall’altro il sistema bancario più avido del mondo. Spazio in mezzo per sopravvivere non ce n’è. E anche questo è un effetto dei governi che non sono espressione della volontà popolare. Perché se un Governo non risponde al popolo, allora non perseguirà mai l’interesse della Nazione ma solamente quello di chi ne ha permesso la formazione e ne garantisce la sopravvivenza. E questo vuol dire non solo debolezza internazionale, ma anche asservimento ai gruppi di interesse. Lo abbiamo visto con gli ultimi governi; le famiglie e le imprese sono state spremute e sacrificate sull’altare del rigore e dei conti pubblici, ma nello stesso periodo abbiamo assistito a una sfilza di favori e marchette fatte al mondo finanziario e alle grandi lobby. Pensate solo ai 17 miliardi di sconto fiscale alle banche contenuti nella legge di stabilità, l’ignobile condono di miliardi di euro di evasione concesso alle società di gioco d’azzardo e prima ancora al condono di 4 miliardi fatto agli istituti di credito, le leggi contro le sigarette elettroniche per favorire le lobby del tabacco. Il tutto culminato con l’autentico atto di alto tradimento commesso con il decreto Bankitalia con il quale si sono letteralmente regalati alle banche 7 miliardi e mezzo, si è stabilito che ogni anno verranno regalati agli istituti di credito ulteriori 450 milioni di euro, sottratti alle casse dello Stato e – soprattutto – consegnando la Banca d’Italia alle banche private, si è privata l’Italia dell’ultimo residuo di sovranità monetaria che aveva.  E sapete qual è la cosa ancora più vergognosa? Che per far passare questa ignominia il governo l’abbia accoppiata con l’abolizione della seconda rata dell’IMU, per poter dire – se avessimo fermato il decreto – che volevamo far pagare l’IMU agli italiani. Noi, gli unici che la tassa sulla prima casa non l’hanno votata in nessuna forma! Un sistema sinistramente simile a quello usato dai terroristi, che schierano scudi umani a protezione dei propri armamenti dalle incursioni nemiche. Una roba da banditi, che gli italiani devono conoscere. E anche se i media ci hanno semi oscurato ancora una volta, voglio rivendicare la nostra protesta nell’aula di Montecitorio. Perché quando vengono imposti, tra l’altro violando le regole, atti come questo, si ha il dovere morale di indignarsi, innalzare cartelli, se necessario occupare i banchi del governo. Di fare qualunque cosa per onorare il Parlamento, un luogo che dovrebbe fare le leggi per e non contro gli italiani.

Anche qui due Italie. Quella dell’economia reale, che produce ricchezza nonostante l’opposizione dello stato, e quella della grande finanza, che non produce nulla nonostante gli aiuti di stato. Noi saremo i paladini della prima e i peggiori nemici della seconda. L’esatto contrario di quello che fa la sedicente sinistra, che si schiera sempre con i potenti. Vogliamo ripensare il rapporto tra lo Stato e i cittadini. Vogliamo fare tutto quello che 20 anni fa prometteva di fare  il centrodestra italiano, e che ha fatto solo in minima parte. La rivoluzione del merito, la liberazione del cittadino e delle imprese dalla burocrazia, dalle tasse, dai condizionamenti dei sindacati e dei poteri più o meno occulti, da una antica ed odiosa visione secondo la quale il cittadino suddito deve sempre chiedere ed attendere il permesso da uno Stato oltretutto incapace e ingiusto. E spesso asservito al politicante di turno, come non accadeva neanche con il Don Rodrigo dei Promessi Sposi ai tempi della dominazione spagnola.

Vogliamo mettere un tetto alle tasse in Costituzione, rivedere quella follia che è l’IRAP che penalizza le aziende che assumono e premia quelle senza dipendenti. Basta con Equitalia e le leggi speciali dell’agenzia delle entrate. Vogliamo combattere l’evasione fiscale consentendo ai cittadini di scaricare tutte le spese dalla dichiarazione dei redditi, questa è la sfida di Fratelli d’Italia – Alleanza nazionale. Lo stato la smetta di accanirsi contro chi, in questi anni di crisi, non riesce a pagare tutto quello che pretende. Ribadisco la nostra proposta: eliminare aggi e interessi di mora alle cartelle esattoriali e sospendere il pagamento per le famiglie che non ce la fanno.

Perché c’è l’Italia colpevole di Angiola Armellini, che non paga di ereditare un impero senza aver fatto nulla nasconde due miliardi di euro al fisco, e c’è l’Italia vittima di Gigliola del Pero, alla quale l’Agenzia delle entrate, un anno fa, ha spedito una cartella esattoriale chiedendole qualche migliaio di euro per il deposito della sentenza con la quale venticinque anni fa è stato condannato l’uomo che le ha ucciso la figlia, Monia, di 19 anni, strangolandola e chiudendola nei sacchi della spazzatura.

Ci sono due italie nel pubblico impiego. Penso ai milioni di bravissimi dipendenti pubblici che tengono in piedi lo Stato, nonostante tutto e tutti, che lavorano con abnegazione mentre il loro collega passa l’intera giornata a tentare di imboscarsi. Ecco, dobbiamo premiare i primi ed essere assolutamente intolleranti con i secondi. Quanto cambierebbero le cose, se tutti cominciassimo ad amare e curare l’Italia come curiamo la nostra casa, se lavorassimo nel pubblico con la stessa dedizione che metteremmo in una azienda di nostra proprietà. Perché noi non ce ne rendiamo conto, ma lo stato è la nostra azienda di famiglia. Ci è stato tramandato dai nostri padri, e noi lo tramanderemo ai nostri figli. In questo, ogni singolo italiano ha la sua parte di responsabilità. Non solamente i politici.

C’è un’Italia da liberare, che chiede uguaglianza da contrapporre all’egualitarismo. In nome di quella Italia noi dichiariamo guerra a ogni privilegio, a ogni rendita di posizione, a ogni sopruso che venga spacciato per diritto. Vogliamo ripulire l’Italia dalle scorie della cultura sessantottina. Perché in quella generazione non c’è stato niente di veramente rivoluzionario, se non la cattiveria con la quale è rimasta abbarbicata al potere in questi ultimi 40 anni. Erano rivoluzionari i ragazzi del ’99, che non ancora diciottenni ci hanno portato alla vittoria della Prima Guerra Mondiale, perché volevano lasciare ai loro figli una terra libera e forte, non quelli del ’68, che volevano cambiare il mondo con gli esami collettivi e il 18 politico, che chiedevano diritti per i giovani ma poi hanno costruito e difeso un sistema fondato sugli scatti di anzianità indipendentemente dal merito, su numeri chiusi e  concorsi truccati, e che ai loro figli hanno consegnato un presente di incertezza e schiavitù.

Penso a Serena, un’altra storia da raccontare. Serena è stata stupida, è rimasta incinta quando non avrebbe dovuto. All’inizio ha preso in considerazione l’ipotesi di abortire, ma poi ha deciso che avrebbe preferito uccidersi piuttosto che essere lei a uccidere. Alla fine ha fatto la scelta più avvincente di quest’epoca: vivere e far vivere. Si è perfino sposata. Suo marito Marco non ha quasi avuto il tempo di pensarci, di scoprirsi ancora piccolo per quella cosa tanto grande. Vivono in un sottoscala di Bologna. Serena studiava al Dams, voleva fare la regista, Marco voleva fare l’archeologo. Adesso lei fa la commessa in un supermercato, mentre lui porta avanti tre lavori contemporaneamente. Tutto a nero, ovviamente.

Sfruttati, mal pagati, senza garanzie. Se va bene lavoreranno tutta la vita e non vedranno mai uno straccio di pensione decente. E io voglio guardare negli occhi tutti quelli che hanno bocciato la proposta di Fratelli d’Italia per revocare le pensioni d’oro. Chiamano diritti acquisiti una pensione da 90 mila euro al mese. E ti viene in mente una frase cinica che però sembra la triste sintesi di un’epoca. Quando il protagonista dell’ultimo film di Paolo Virzì quando il protagonista dice: “Abbiamo alzato la posta, ci siamo giocati tutto, anche il futuro dei nostri figli. E adesso finalmente ci godiamo quello che ci spetta”.

Vogliamo dire basta. Vogliamo restituire a quei giovani che sfidano a testa alta questo tempo vigliacco un po’ di quanto è stato loro ingiustamente sottratto. Vogliamo cambiare le regole del lavoro, i servizi sociali, riformare il welfare che spreca senza aiutare, far conciliare i tempi della maternità con quelli del lavoro. Perché l’unico valore che ha l’8 marzo, è quello di ricordare che non è una Nazione civile quella che ancora tende a scaricare sulle donne tutto il peso della maternità e poi, per questo, le discrimina nel mondo del lavoro. E lasciatemi dire che non è un caso che dopo decenni di retorica femminista – proprio l’otto marzo – sia la destra a eleggere un presidente del partito donna. Vi ringrazio, sinceramente, per questo. Perché c’è chi parla, e chi fa. C’è chi difende le quote rosa, e chi crede, come noi, che le donne debbano essere messe nella condizione di competere ad armi pari, e che la rivoluzione del merito sia la leva migliore per farle emergere. Perché come diceva Charlotte Whitton, sindaco di Ottawa negli anni ’50, “una donna deve dimotrare di saper fare ogni cosa due volte meglio di un uomo per essere considerata brava la metà. Per fortuna non è difficile”. E’ un omaggio che non faccio a me stessa ma alle donne in sala, perché so quanto devono dimostrare ogni giorno. Per essere prese sul serio.

E ci sono due italie anche nel mondo privato. C’è l’Italia dalla quale partire per ricostruire, quella dei Bruno Cucinelli, azienda d’eccellenza del cachemire italiano, che senza aiuti di Stato e senza pressioni, decide di destinare 5 milioni di euro di utile ai suoi 800 dipendenti, per premiarli e condividere con loro i successi conseguiti, perché sa che la partecipazione agli utili può essere la risposta giusta in questo tempo. E c’è l’Italia che dobbiamo superare se vogliamo ricostruire, quella dei bamboccioni figli di papà, che sentenziano sul libero mercato e sulla concorrenza non avendo mai prodotto nulla in vita loro. Come John Elkan, che ha avuto il coraggio di dire che i giovani italiani non lavorano perché non ne hanno voglia e che lui invece ricopre incarichi di responsabilità perché ha saputo cogliere le occasioni. Certo, le occasioni le ha colte lui, non la Fiat, che prima ha arraffato milioni di euro dallo Stato italiano e poi, quando non è più convenuto, ha trasferito la sede fiscale e gli stabilimenti produttivi all’estero. Pietà, John Elkan: rischi di far sembrare Lapo quello credibile tra i due.

Vogliamo combattere il lato oscuro dell’Italia, quello avido, egoista, criminale descritto da Prezzolini. Vogliamo dire che libertà è anche disciplina, responsabilità, rispetto delle regole. Insegnare ai ragazzi la cultura della legalità, che per noi è il punto di partenza di ogni agire, una sfida da vincere prima di tutto con noi stessi. E’ un tema culturale, ma anche economico. Perché la corruzione ci costa 60 miliardi l’anno. Significa che ognuno di noi, bambini compresi, regala ogni anno 1000 euro ai ladri. Ma significa anche che c’è più gente di quanta ne immaginiamo che beneficia di questi soldi.

Dobbiamo dircele queste cose. Dobbiamo dirci che la vittoria o la sconfitta della mafia non dipendono tanto dalle forze dell’ordine, che pure fanno un lavoro straordinario, ma da ciascuno di noi e dalle piccole scelte quotidiane che compiamo. Perché la mafia non esisterebbe se non ci fossero la paura, l’omertà, l’indifferenza che diventa complicità. La mafia morirebbe senza consenso.  Lo diceva Paolo Borsellino, “Quando la gioventù le negherà il consenso anche la misteriosa e onnipotente mafia svanirà come un incubo”.

La prevenzione culturale come la lotta al crimine sono i due presupposti per l’esercizio del primo diritto civile: quello alla sicurezza per se stessi e per i propri cari. Un tema così poco in voga nei salotti radical chic della sinistra. L’unica cosa che questa maggioranza è stata capace di fare sono stati i decreti svuota carceri e gli indulti mascherati con i quali si rimettono in libertà migliaia di detenuti. E vorrei chiedere a questi signori: come pretendete che gli italiani abbiano fiducia in uno Stato che fa pagare a loro la sua incapacità? Perché quando vengono rimessi in libertà dei delinquenti prima del tempo, è un dato di fatto che molti di loro tornino subito a delinquere. Quando Prodi ha fatto l’indulto del 2006 sono usciti dal carcere 26.000 detenuti; nel giro di neanche un anno ne erano tornati in carcere più di 5000. E’ corretto dire che di quei nuovi crimini il mandante è lo Stato italiano con la sua incapacità di risolvere strutturalmente il problema del sovraffollamento carcerario? Noi crediamo di si. Uno stato serio non scarica sula povera gente le sue inefficienze.

C’è un’altra storia che voglio raccontarvi, quella di Edoardo. Lui è in questa sala. Ha 19 anni. È una persona normale, eppure è una rarità nel nostro panorama. Perché non ci sono molte ragioni per fare politica oggi. O quantomeno non ci sono le stesse tensioni ideali che hanno attraversato l’Italia nel dopoguerra, negli anni settanta, sul finire della prima repubblica o sul principio della seconda. Non se ne parla a scuola, nelle piazze, negli stadi. Se ne parla un po’ in tv o sui giornali, quasi sempre come se fosse una cosa sporca, o molto esclusiva, un po’ come quei club costosissimi che puoi permetterti solo di sbirciare al di là della siepe.

Partiti usa e getta. Governi non votati da nessuno. Problemi che crescono, soluzioni che non arrivano. Dove la trova, oggi, un ragazzo di vent’anni la voglia di dedicarsi all’attività politica? Eppure Edoardo ha cominciato il suo percorso a scuola come tanti di noi. Certo ha integrato i volantini di carta con i tweet o con i post su facebook, ma quando poi si ritrova col suo gruppo di amici con la voglia di cambiare il mondo, beh: è la stessa magia di sempre. È la politica, il più formidabile strumento per realizzare sogni che abbia mai inventato l’uomo. Certo, parlo della politica vera. Non quella che si fa studiando i sondaggi o nei salotti televisivi, e neanche quella che si fa nascosti dietro la tastiera di un computer, eseguendo gli ordini della Casaleggio Associati.

Qualche fine giornalista di certa intellighetia storcerebbe il naso di fronte ai ragionamenti semplici di Edoardo. Sulla sua voglia di Patria e di identità. Che è un istinto, certamente, ma non solo. Perché laverità è che noi non siamo una Nazione come le altre. L’Italia è, come ha scritto Marcello Veneziani, una “Nazione culturale”, che trova le sue vere radici non in un elemento etnico ma in una storia culturale che preesiste allo Stato.

Se l’Italia si distingue nel mondo è innanzitutto per il suo sterminato patrimonio di beni culturali, artistici e archeologici. Un tesoro, anche economico, da mettere a frutto con intelligenza e passione. Non un fondo a cui attingere per finanziare film di registi pseudoimpegnati che non vedrà mai nessuno. E Lasciatemi dire che sono molto contenta che il regista Sorrentino abbia portato in Italia un altro premio oscar come miglior film straniero. Ma sarei stata ancora più contenta se avesse utilizzato il suo straordinario talento per raccontare il meglio degli italiani e non la loro caricatura più stereotipata. Purtroppo è un dato di fatto, che a parlar male di noi stessi siamo i più bravi del mondo.

E però l’identità italiana non è solo paesaggio culturale, è anche paesaggio naturale, territorio, spesso plasmato, non stravolto, proprio dall’opera dell’uomo con l’agricoltura e le costruzioni monumentali immerse nel verde. Il nuovo patriottismo da professare, per un movimento autenticamente conservatore come il nostro, è anche la difesa delle nostre coste, delle nostre montagne, dell’ambiente in cui viviamo. Mai più condoni edilizi a sanare la devastazione, Mai più inquinamenti ambientali o discariche abusive. Chiediamo scelte energetiche sostenibili. Difendiamo l’ambiente, la natura, “quell’equilibrio da mantenere a tutti i costi per noi e per chi verrà dopo di noi, fra cento o duecento anni”, come diceva un grande amico e maestro, Paolo Colli, parlandoci di energie rinnovabili ed ecologia, quando Beppe Grillo stava ancora lì a fare “Te lo do io il Brasile” su Rai Uno.

La nostra idea di destra cavalca senza paura le tecnologie, ma senza restarne vittime o dimenticando la strada percorsa fin qui dalla nostra civiltà. Per dirla con una splendida frase di Steve Jobs: “Baratterei tutta la mia tecnologia per una sola serata con Socrate”. Ecco, identità è il riconoscimento delle nostre radici greco romane e cristiane, fondate sui diritti della persona e sulla libertà individuale. Ovvero un modello di società e di famiglia che preesiste lo Stato e che non può essere modificato per editto.

Amare la propria identità significa difendere la lingua, investire nella formazione, rimettere al centro della crescita le scuole e le Università. Identità significa difendere le eccellenze artistiche, alimentari ed economiche. Il nostro patriottismo economico non sarà mai una stupida autarchia, ma sacrosanta difesa del talento italiano. E se qualcuno se ne frega delle regole di civiltà che ci siamo dati, beh allora venda i suoi prodotti da qualche altra parte, perché noi chiediamo che venga escluso dal mercato.

A partire da casa nostra, dove dilaga la concorrenza sleale. Basta con i prodotti importati a prezzi stracciati perché costruiti dai bambini nei Laogai.  Basta, anche qui, con le due italie, quella delle aziende italiane che rispettano le regole e chiudono e quella delle aziende cinesi che non rispettano le nostre regole e continuano a proliferare. Basta con le zone franche, dove si evadono milioni di euro, che lo stato fa finta di non vedere. Basta.

Identità, infine, è combattere la follia dello ius soli che riduce la cittadinanza italiana a una formalità burocratica. La cittadinanza non è un automatismo, è una scelta. Per quanto ci riguarda, identità non sarà mai chiusura nei confronti dell’altro da sé. Perché chi conosce se stesso non ha paura dell’altro. Ma questo non significa avere il coraggio di sfidare il politicamente corretto se c’è da difendere il diritto di un italiano a lavorare, ad attraversare un parco di notte, o a poter ambire a una casa popolare. E non c’entra niente la demagogia, o il razzismo, anche se non mi spaventano le parole. Mi spaventa l’incapacità delle istituzioni di stabilire delle priorità rispetto ai bisogni della gente. Soprattutto in tempo di crisi e risorse scarse come questo. Dirò senza problemi che mi fanno rabbia le foto di quelle case popolari su Corso Vigevano a Torino, con tanto di parquet e televisore al plasma, date a decine di rom, in cambio della loro gentile disponibilità ad abbandonare il campo nomadi locale, mentre ci sono centinaia di famiglie italiane in lista d’attesa da anni per una casa popolare i cui bambini continueranno a dormire in macchina per chissà quanto tempo. L’hanno chiamato “la città possibile”, questo scempio perpetrato nel nome della solidarietà. La stessa parolina che viene utilizzata per giustificare l’ingresso in Italia di milioni di immigrati, che poi finiranno in carcere o sotto i ponti perché non hanno i mezzi per poter vivere nell’onestà e nella dignità che pure sarebbe loro dovuta. La stessa parolina in nome della quale il governo Letta ha pensato di trovare i fondi per l’accoglienza agli immigrati azzerando il fondo per i rimpatri dei clandestini e persino quello per le vittime della lotta alla mafia. Questo buonismo penoso e a senso unico, che aiuta tutti meno chi nasce italiano, non ci apparterrà mai.

Ci sarebbe tanto altro da dire, ma non voglio esagerare e poi qualcos’altro dirò nella replica di domani. Quello che voglio dire è: non so dire se questi temi che ho citato siano di destra o di centrodestra, o di destra centro o perfino di sinistra come mi seno dire a volte. So che sono giusti e tanto mi basta. Perché non ho mai pensato che la mia visione del mondo potesse stiparsi interamente in un simbolo o in un termine, per quanto possa essere affezionata a quel simbolo o a quel termine. Io vorrei solo non dovermi vergognare di fronte a coloro che credevano nelle stesse idee in cui credo io e per quelle idee hanno sacrificato tutto. E allo stesso tempo voglio non dovermi vergognare di fronte a coloro che non sono ancora nati, ma calcheranno la mia stessa terra e mi chiederanno conto delle condizioni nella quale versa. Per loro saremo conservatori nel senso rivoluzionario del termine, nel senso divino del termine. “Difendi, conserva, prega!” direbbe Pierpaolo Pasolini, quando riconosceva alla destra quella familiarità con il divino che la sinistra non potrà mai avere, e parlava di una “Destra divina che è dentro di noi, nel sonno”.

Ci dedichiamo, da oggi, alla realizzazione di un grande, nuovo movimento che riscatti l’Italia e la destra italiana, ricomponendo una comunità umana e militante dispersa in troppi rivoli, ma includendo anche uomini e donne provenienti da altri percorsi ideali che profumano di sacro e di libertà. Per farcela, conterà la rabbia per le occasioni perdute fin qui, e la feroce volontà di andarsele a riprendere. Conteranno le idee e le persone. Conterà la sincerità dei percorsi di ciascuno. Voglio dire ancora una volta che le nostre porte sono aperte a tutti, che la nostra casa è grande e accogliente. E aggiungo che mi dispiace per coloro che non hanno avuto la stessa temerarietà che abbiamo dimostrato noi. Perché se hanno cominciato a fare politica con un certo mondo significa che una scintilla danzava da qualche parte dentro di loro, e se un barlume di quella luce ci fosse ancora, no so se potrà essere appagato da quella poltrona che stanno barattando con la loro libertà.

Non comprendo la scelta di persone che dovrebbero essere qui e non ci sono, perché non ci saranno altre occasioni. Daremo voce a quell’Italia fatta di persone semplici che guardano alle cose essenziali. Quegli italiani che amano la libertà, il lavoro, la propria famiglia, che credono in Dio. Che si scaldano davanti a una partita di calcio della squadra del cuore. Quegli italiani estrosi, ottimisti, affascinati dal futuro. Che certo ogni tanto si arrabbiano e impugnano il forcone per difendersi dall’aumento dell’Iva o dell’accise sulla benzina. Ma che alla fine sentono forte il senso di appartenenza a una Patria, sopra ogni cosa. È il loro modo, è il nostro modo, di sentirci meno soli, di superare la mortalità delle nostre esistenze. Daremo loro una casa politica. Faremo del nostro meglio.

Se io potessi raccontare questa giornata con un titolo, direi: la destra italiana si rimette in cammino. Tante persone che si erano perse ritrovano la strada di casa, si rimboccano le maniche e si mettono a ricostruire, per dare forza a questa Alleanza di Fratelli che oggi fondiamo. E pazienza se qualcuno, scherzando, dice che sembriamo la Famiglia Addams. A me che sono ottimista piace pensare che somigliamo più alla “Compagnia dell’Anello”. Ma in ogni caso non ci interessa essere belli. A noi interessa essere coerenti e credibili, anche perché abbiamo visto i risultati, quando ci si è preoccupati di mettere in parlamento persone più belle che capaci.

Il partito della Nazione deve sapersi fare carico del destino di ognuno e di tutti. Ed è il partito che faremo noi. Senza rendite di posizione e senza epurazioni anagrafiche. Perché non abbiamo mai sostenuto il giovanilismo privo di contenuti, anche se abbiamo combattuto quella gerontocrazia che si è ingoiata la chiave del rinnovamento generazionale.

Noi abbiamo raccolto l’esempio e l’insegnamento di Giorgio Almirante, e ringrazio Donna Assunta e Giuliana per essere qui. Raccogliamo il suo insegnamento quando diceva: “In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per salutarvi in piedi nel momento del commiato, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla”.

Raccoglieremo quel testimone, con uno sguardo al futuro, al nuovo, a tutto quello che bisogna fare per superare i limiti in questa seconda repubblica. Ma voglio anche dire che di recente, a qualcuno, quel testimone è caduto. In questi anni non ho mai risposto ai diversi attacchi, alle ironie, che ci e mi sono stati rivolte da Gianfranco Fini. Perché non è nel mio stile rispondere e perché penso che i panni sporchi debbano essere in qualche modo lavati in casa. Quello che ho letto ieri, però, merita almeno una risposta. Io non comprendo le ragioni di tanto astio per chi prova a ricostruire qualcosa che evidentemente a Gianfranco Fini non interessava più. Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo.

Allora signori, e concludo. Oggi si riparte. Noi ricostruiamo. L’importante è guardare sempre dove si vuole andare, cioè in alto. Spingiamo ogni giorno l’asticella dei nostri sogni un po’ più su. Come il titolo di quella che è forse la più bella canzone di Renato Zero, che dice:

Canto e piango pensando che un uomo si butta via,
Che un drogato è soltanto un malato di nostalgia,
Che una madre si arrende ed un bambino non nascerà,
Che potremmo restare abbracciati all’eternità…
Sveleremo al nemico quel poco di lealtà,
Insegneremo il perdono a chi dimenticare non sa,
La paura che senti è la stessa che provo io,
Canterai e piangerai insieme a me,
Fratello mio…

Grazie!

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